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mercoledì 15 febbraio 2017

Lui è tornato, trama ed intervista al regista





Er ist wieder da - Lui è tornato. Si intitola semplicemente così, dove per quel Lui si intende Adolf Hitler, il caso cinematografico tedesco di questa stagione. I trecentomila spettatori nei primi quattro giorni di programmazione in sala gli hanno garantito le prime pagine di quasi tutti i media nazionali e acceso un dibattito sull'attualità della figura del Führer. Sì perché il film, a sua volta tratto dall'omonimo best seller di Timur Vermes del 2012 (pubblicato in Italia da Bompiani), mescola finzione e candid camera.


Trama
Giorni nostri, Marzhan, popolosa zona est di Berlino. Tra i cespugli di un cortile condominiale si risveglia uno spaesato Adolf Hitler. Non si sa come e perché abbia viaggiato nel tempo, non lo sa neanche lui. I bambini che lo notano per primi non lo riconoscono. Lo fa un reporter di una trasmissione televisiva che si trova casualmente nei paraggi e lo filma. Pensa sia una perfetta imitazione dell'originale. I suoi discorsi risultano troppo assurdi, oggi, per sembrare veri. Il video ha migliaia di visualizzazioni su YouTube. La rete televisiva decide quindi di invitarlo nei suoi studi e presentarlo all'interno di uno spettacolo comico. Il pubblico ride, ma ascolta anche con molta attenzione. Hitler comincia a girare per le strade e parlare direttamente alle persone delle sue idee. E qui il film cambia registro. Niente più copione. Le comparse sono vere come in molte scene di Borat di Sascha Baron Cohen. Quando il falso Hitler si lancia in pensieri razzisti a difesa chi gli sta intorno non sempre sorride e basta, certe volte annuisce e rinfocola, con convinzione, le sue argomentazioni. Sanno bene di trovarsi accanto a un attore (Oliver Masucci), ma la videocamera spegne le loro inibizioni portandoli a una sincerità che, vista da fuori, fa un po' paura. "Potenzialmente un terzo dei tedeschi voterebbe un partito di destra in Germania se solo ce ne fosse uno credibile. Per fortuna l'NDP, il partito nazionalista, non lo è, ma bisogna fare attenzione alla nuova formazione Alternative für Deutschland. Formata solo da professorsi universitari, dietro il suo antieuropeismo, nasconde anche molti pensieri pregni di intolleranza e razzismo" ci racconta il regista trentottenne David Wnendt. "La mia generazione rischia di dimenticare il passato. Bombardati da un mare di informazioni e nozioni, si fa fatica a sviluppare senso critico e a leggere il presente con coscienza critica".

Commenti del regista e dei quotidiani
Cosa l'ha sorpresa maggiormente durante le riprese?
"Il sincero entusiasmo che molte persone mostravano al nostro falso Hitler. Alcuni salutavano con Sieg Heil come se nulla fosse. Davanti la porta di Brandeburgo un gruppo di italiani hanno voluto farsi un selfie con lui ed il braccio destro alzato. Si vede anche nel film".

Ha avuto modo anche di ascoltare le parole di chi simpatizzava con i concetti, per voi assurdi, per loro credibili del vostro falso Hitler?
"In periodi di crisi economica lo straniero è sempre il capro espiatorio. Ma non è questa l'unica ragione. Si cerca un leader. La Merkel lo è, ma a suo modo, manca di quel carisma che molte persone pensano debba esser alla guida di una nazione. Sono ignoranti che ragionano con la pancia visto che hanno poco da chiedere alla testa".

Molti giornali tedeschi, dalla Bild a Cicero, si sono sorpresi del successo del film...
"È normale che ci si chieda se tutti gli spettatori recatisi finora al cinema lo abbiano fatto solo per ridere di Hitler o anche per un pizzico di nostalgia. È bene che si parli di questo".

Come ha fatto a coinvolgere nel film anche i veri rappresentanti di Alternative für Deutschland?
"Il desiderio di molti politici apparire in video, o addirittura in un film, fa passare in secondo piano il contesto in cui si trovano. Non pensano di fare brutta figura, colgono il tutto come un'ulteriore vetrina per le loro idee. Mentre uno di loro parlava il nostro Hitler gli si è addormentato sulla spalla, ma lui ha continuato a parlare come se nulla fosse. Nel film appaiono anche due videoblogger neonazisti che preparano solo ricette vegane. Quando ci siamo proposti di intervistarli hanno detto subito di sì. A loro, anche un film Hitler, suscita entusiasmo".

Qual è la vera Germania? Quella che dichiara che accoglierà 500mila rifugiati nel 2015 o quella che lei pensa potrebbe votare in massa, fino al 30%, un partito fortemente di destra?
"Entrambe. La società tedesca si sta spaccando in due. E, per certi versi penso che sia una cosa positiva. Chi ha sempre pensato di potere fare finta di niente ora è obbligato a prendere posizione. L'interesse per la politica sta salendo. E più ci si informa più diventa difficile per certe idee continuare a circolare. Il populismo ha successo solo se c'è ignoranza. Anche da voi, con Berlusconi prima e la Lega Nord oggigiorno, è la prova che non solo in Germania il nazionalismo può pescare in larghe fette dell'elettorato. Bisogna stare in guardia".

Er ist wieder dauscirà anche in Italia?
"Per il momento non abbiamo un distributore italiano, speriamo che il successo che stiamo avendo in Germania attiri l'attenzione".

In Italia però un analogo film su Mussolini, con un finto Duce che gira per le strade, sarebbe possibile?
"Non so, dovreste dirmelo voi, anche se ho paura di ciò che si scoprirebbe".


Il film, tratto dal bestseller di Timur Vermes, è il caso cinematografico tedesco di questa stagione. Tra fiction e candid camera, il Führer riappare ai giorni nostri, diventa un fenomeno su YouTube e in tv. E riscuote insospettabili simpatie





mercoledì 4 gennaio 2017

Armir l'ultima marcia. I ricordi del reduce Mario Rigoni Stern ne "Il Sergente nella neve"

Il 22 Giugno 1941, Hitler invade L'Unione Sovietica con un imponente schieramento di uomini e mezzi corazzati  (3 milioni di soldati e 3500 carri armati) dando inizio all'operazione Barbarossa.

In breve, grazie alla superiorità militare e strategica, la Wermacht tedesca dilaga nel territorio sovietico,  conquistando la città di Kiev (nell'attuale Ucraina), assediando Leningrado e giungendo fino alle porte di Mosca.

Mussolini, che vuole sedere al tavolo dei vincitori insieme alla Germania insiste per inviare un contingente di sessantottomila uomini, lo Csir, per supportare il fronte tedesco. Ma sin dall'inizio emergono le difficoltà di rapporto con l'alleato tedesco, animato da forte razzismo e che nella tragica ritirata nel territorio sovietico abbandonerà a se stesso l'esercito italiano.

Quella che doveva essere nelle previsioni una guerra lampo si trasforma in una guerra di logoramento, a causa dell'insospettata resistenza russa e del sopraggiungere del rigidissimo inverno russo. Le forze dell'asse sono respinte  dalla capitale sovietica, ma Hitler non si scoraggia e durante l'estate del 1942 dà inizio all'operazione Blu.




Piano d'azione per l'operazione Blu

L'operazione Blu prevede la divisione dell'esercito in due gruppi: il primo attaccherà Stalingrado, simbolo del comunismo e importante centro industriale, il secondo dovrà impadronirsi dei pozzi petroliferi del Caucaso, vitali per i rifornimenti dell'esercito tedesco e di quello sovietico.

Inoltre su richiesta del comando tedesco Mussolini manda altre truppe di rinforzo, tra cui tre divisioni alpine (Julia, Tridentina e Cuneense) , che unite a quello dello Csir formano l'ottava armata nota anche come Armir (armata italiana in Russia), composta da duecentoventimila uomini. Essa doveva  aiutare sia i reparti alpini tedeschi nel Caucaso che quelli a Stalingrado.

Ma anche questa volta il piano di Hitler è destinato a fallire. Hitler decide, nonostante tutto, di continuare l'attacco a Stalingrado.  Questa decisione porterà a uno dei più grandi errori strategici della storia, dalle conseguenze inimmaginabili. Accerchiata dai Sovietici per oltre 3 mesi, la sesta armata di Von Paulus , duramente provata dalla fame e dal freddo,    nel febbraio del 1943 sara' costretta alla resa.




Sidecar tedeschi in marcia durante l'operazione Blu



Truppe della 14 divisione tedesca puntano su Stalingrado

Ma facciamo un passo indietro.Nell'inverno del 1942, mentre a Stalingrado i tedeschi cercano di annientare le esigue forze russe rimaste, le truppe italiane e ungheresi coprono il fronte a nord di Stalingrado mentre le truppe rumene quello sud.



Posizioni delle divisioni italiane lunga la linea del Don



Sentinella italiana lungo la linea del Don





Soldati Italiani lungo il Don



I reparti alpini dell'Armir non erano dotati di equipaggiamenti adatti alla guerra in Russa (combattimento in pianura) e alle rigide condizioni ambientali: gli scarponi chiodati provocavano il congelamento dei piedi, i fucili, le mitragliatrici e le granate si inceppavano per il freddo. Anche gli aerei e i camion a causa della penuria di anti-gelo risultavano inutili.



Peraltro solo l'Armir, tra gli alleati tedeschi, disponeva di circa sessanta carri armati che erano sotto il controllo della sesta armata tedesca.



Carro armato italiano L6/40 in Russia



Nel dicembre 1942 il comando sovietico prepara una enorme offensiva invernale (operazione Piccolo Saturno),  con la quale intende sfondare in più punti il fronte nemico sulla linea del Don, presidiata in larga parte dall'ARMIR ,  e circondare la sesta armata di Von Paulus a Stalingrado.



T-34 Russi avanzano in Ucraina



Il 15 gennaio del 1943 i Russi fanno partire un’altra grande offensiva invernale e sfondano il fronte sul Don nelle zone presidiate dagli Ungheresi a Nord e dai Tedeschi e Rumeni a sud, senza spezzare il fronte tenuto dalle divisioni alpine italiane, e chiudendole in una tenaglia. Il 16 gennaio ha inizio la tragica ritirata del corpo alpino italiano ormai  completamente accerchiato : mal equipaggiati ed a corto di rifornimenti,  i nostri alpini percorrono a piedi circa 200 chilometri in quindici giorni a 40° gradi sottozero ,  nelle tormente di neve ed incalzati dalle divisioni sovietiche.




Reparti dell'Armir, ungheresi, tedeschi e rumeni in rotta





Soldati caduti coperti dal ghiaccio

Ogni giorno  essi devono conquistarsi ogni chilometro per la salvezza, affrontando aspri combattimenti in condizioni di assoluta inferiorità numerica e di equipaggiamenti  ma dando prova di grande eroismo.  In particolare è la divisione alpina Tridentina, che era stata risparmiata dai combattimenti più duri e aveva mantenuto quasi per intero la propria dotazione in uomini , armi e materiali ed il proprio spirito combattivo, a guidare la ritirata di quarantamila sbandati di ogni nazionalità, senza più ordini, non tutti armati ed in parte congelati..



Soldati della Tridentina che portano la "pesante" (Breda 37)

Tuttavia le perdite umane sono enormi: sia a causa dei continui attacchi da parte dei carri armati e delle incursioni dei caccia sovietici alla lunga fila di soldati in rotta (ungheresi, tedeschi, italiani e rumeni), sia a causa delle proibitive condizioni climatiche  che provocano la morte per assideramento e congelamento di migliaia di uomini. I corpi dei soldati morti  russi, italiani, tedeschi, ungheresi e rumeni  sono rapidamente ricoperti dalla neve portata dal gelido vento della steppa, senza più alcuna distinzione. 

 E’ l’inferno bianco descritto in maniera magistrale da Mario Rigoni Stern, all’epoca  alpino della Tridentina poco più  che ventenne,  ne “Il sergente della neve”. Sono pagine di altissima umanità nella disumanità . L’istinto di sopravvivenza è più forte di ogni cosa. Scrive Rigoni Stern: “ Attraverso la steppa si snodava la colonna che poi spariva dietro una collina, lontano. Era una striscia come una S nera sulla neve bianca. Mi sembrava impossibile che ci  fossero tanti uomini in Russia, una colonna così lunga… Si camminava squadra per squadra,  plotone per plotone. La fame, il freddo, la stanchezza , il peso delle armi erano niente e tutto. L‘importante era solo camminare”. Infatti fermarsi significava morire di freddo o rischiare di essere catturati dai russi e tuttavia molti commilitoni si abbandonavano esausti nella neve per non alzarsi mai più.  Anche Rigoni  ha un  momento di sfinimento e così racconta: “ mi butto sulla neve e sembra che non ci sia neanche la neve. Chiudo gli occhi sul niente. Forse sarà così la morte , o forse dormo”.  Ma saranno i suoi commilitoni a salvarlo, incitandolo ad alzarsi ed a proseguire nel cammino. Si tratta di indimenticabili pagine di solidarietà e  fraternità tra gli uomini.





Non si può poi dimenticare  la carità  delle donne ucraine , che accolgono nelle loro isbe i soldati italiani stremati alla fine di ogni giornata (trascorrere la notte fuori nella bufera di neve equivaleva a morire) , dividendo con loro il proprio modesto pasto, una scodella di minestra. Donne duramente provate dalla guerra, che sono rimaste sole con i bambini ed i vecchi perché gli uomini sono stati uccisi dai tedeschi o sono stati portati via dai sovietici.

 Un giorno Rigoni, affamato,  bussa alla porta di un’isba  ed entra: dentro ci sono delle  donne con bambini e dei soldati russi armati, seduti attorno ad una tavola ed intenti a mangiare. Così racconta: “Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi mi guardano con il cucchiaio sospeso a mezz’aria”. Una donna gli  porge un piatto di minestra  e tutti mangiano in pace. Poi “i soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi….. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati , quelle donne , quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti.  Finché  saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente.” Per una volta l’umanità ha prevalso sulla barbarie della guerra.

In ben  11 scontri maggiori ed altri minori la Tridentina supera gli sbarramenti sovietici, rompendo i tentativi di accerchiamento. Ciò  sino all’ultima battaglia di Nicolajewka, il 26 gennaio del 1943, descritta da  Rigoni Stern: i soldati superstiti della  Tridentina (4000 uomini), con l’appoggio di un residuo gruppo corazzato tedesco (5 carri armati), si trova a dover fronteggiare alcuni reparti sovietici  (6000 uomini con carri armati , armi anticarro e mitragliatrici) trincerati tra le case del paese e il terrapieno di una ferrovia  per  bloccare la loro fuga dalla grande sacca del Don. I combattimenti si protraggono per tutta la giornata ma, nonostante i numerosi assalti e gli atti di valore di ufficiali, sottufficiali e soldati sino al sacrificio della loro vita, non si riesce a rompere  l’accerchiamento russo. La situazione si fa sempre più tragica perché il sole comincia a scendere sull’orizzonte ed una permanenza all’addiaccio nelle ore notturne, con temperature  tra 30 e 35 gradi sotto zero, avrebbe significato per tutti l’assideramento e la morte.   A questo punto il generale Reverberi, comandante della Tridentina, salito su un cingolato tedesco, guida i suoi alpini all’assalto al grido di “Tridentina avanti”. Le sue parole per i pochi  alpini ancora in grado di combattere e per l’enorme massa di sbandati è l’ultima speranza a cui aggrapparsi :un fiume umano si riversa contro le truppe sovietiche travolgendole letteralmente. I Russi ripiegano lasciando sul terreno i loro morti, armi e materiali.





Il generale Reverberi (a destra), il colonnello Signorini (al centro).

Scrive Rigoni Stern:” Questo è stato il 26 gennaio 1943. I miei più cari amici mi hanno lasciato quel giorno.” Sono tutti i compagni con i quali in quella tragica ritirata egli  aveva condiviso giorno per giorno la speranza di tornare a casa. Molti sono rimasti là sulla neve, stroncati nel fiore degli anni da una guerra insensata che non avevano certamente  voluto ma che erano andati a combattere per dovere.

Nicolajewka è stata la vittoria della disperazione, la battaglia vinta per sopravvivere, per riuscire a tornare a casa. Le perdite italiane furono altissime ma la battaglia fu un successo perché le truppe dell’asse riuscirono ad uscire dalla sacca di accerchiamento russa. Esse  percorreranno ancora 700 chilometri a piedi prima di raggiungere le retrovie tedesche e potersi finalmente dichiarare in salvo.

Quel giorno a Nicolajewka c’era anche il Beato  Don Carlo Gnocchi in qualita' di cappellano militare della Tridentina che, reduce dalla guerra di Albania, era partito volontario per la Russia per stare vicino ai suoi  alpini ( come diceva) e che fu  per loro fonte inesauribile di conforto e di amore.

Il ricordo di Don Gnocchi  nel racconto di un alpino: «Conquistata Nikolaevka, don Carlo chiede al colonnello Adami quattro uomini per ritornare sul campo di battaglia a benedire i morti. Io sono uno dei quattro". Partono per un viaggio all’indietro. «È quasi buio. “Ragazzi”, ci dice don Gnocchi, “sono obbligato a chiedervi tanto coraggio. Dovete mettere in fila, allineati al meglio, i corpi dei morti così che io possa benedirli. Poi, scucite le piastrine di riconoscimento e mettetele nel tascapane”. È distrutto, fisicamente e moralmente. A 40 gradi sottozero, immersi nella neve, tiriamo per i piedi, per le braccia, per le gambe, per i baveri ghiacciati, quello che troviamo di uomini. Don Carlo si trascina da un corpo all’altro in ginocchio, cercando di fare il segno della croce. A un certo punto si volta verso di noi: “Ho finito l’olio santo; userò la neve”. Parla sottovoce, scuotendo la testa: “Dio mio, perché? Perché? Dimmi perché, Dio mio. Io non capisco”. Poi si accorge che mettiamo in fila solo gli alpini. Dolcemente, ci dice: “Ragazzi, per favore, non ci sono solo gli alpini, ma tutti, tutti. Italiani, russi, tedeschi. Tutti, perché qui ci sono solo creature di Dio”.

 Durante la drammatica ritirata Don Gnocchi raccolse le ultime volontà di tanti alpini morenti, che gli affidavano fotografie ed indirizzi dei loro cari . Ad un certo punto cadde anch’egli stremato sulla neve ma fu raccolto su una slitta e salvato. Tornato miracolosamente dalla Russia, egli cercò le madri, le mogli ed i figli degli alpini morti tra le sue braccia: aveva fatto molte promesse e le mantenne tutte. E’ proprio dalla tragica esperienza di Russia che Don Gnocchi maturò quella grande opera di carità che fu la Fondazione Pro Juventute a favore non solo  degli orfani di guerra  ma anche dei bambini mutilati vittime della guerra.

Il 16 gennaio 1943, giorno di inizio della ritirata, il Corpo d'Armata Alpino contava 61.155 uomini. Dopo la battaglia di Nikolajewka si contarono 13.420 uomini usciti dalla sacca, più altri 7.500 feriti o congelati. Circa 40.000 uomini rimasero indietro, morti nella neve, dispersi o catturati. Migliaia di soldati furono fatti  prigionieri durante la ritirata, costretti alle terribili marce del davai e radunati dai sovietici in vari campi dove morirono di  fame e malattia. Uno dei più tristemente noti fu quello di Rada, nei pressi della città di Tambov.
Le cifre sono piu' eloquenti delle parole:  dei 229 mila soldati dell'ARMIR circa 74 mila non torneranno mai più dalle fredde steppe russe. Di loro rimarrà l'imperitura memoria dell'epico scontro di Nikolajewka.



Per non dimenticare coloro che hanno sofferto e sono per morti in terra di Russia.


 



 

venerdì 15 luglio 2016

Land of Mine - Sotto la sabbia



Trama
Nei giorni successivi la resa della Germania nel maggio 1945, un gruppo di giovani prigionieri di guerra tedeschi vengono inviati dalle autorità danesi lungo i confini della Danimarca con l'ordine di rimuovere più di due milioni di mine che i tedeschi avevano sotterrato nella sabbia lungo la costa. Con le loro mani nude i ragazzi sono costretti a svolgere questo pericoloso compito sotto la guida del sergente danese Carl Leopold Rasmussen.

Recensione:
Il film è realizzato benissimo ed è in grado di rendere il clima di costante tensione e le paure e il dolore patito da quei poveri ragazzi costretti a espiare le colpe del popolo tedesco.
Un film che bisogna assolutamente vedere almeno una volta nella vita.


Siti dove trovarlo:

Voto:
5/5

lunedì 9 maggio 2016

Diplomacy una notte per salvare Parigi



Trama
È la notte fra il 24 e il 25 agosto 1944. Gli Alleati stanno per liberare Parigi, ma il Fuhrer ha deciso che distruggerà la città per punire "l'arroganza dei francesi che credono che sia già finita". Le mine sono piazzate sotto Notre Dame, la torre Eiffel, il Louvre, l'Opera, l'Arco di Trionfo. Manca solo l'ordine definitivo affinché ponti, monumenti, stazioni saltino per aria, portando con sé circa 3 milioni di civili residenti nella Ville Lumière. Quell'ordine verrà dato all'alba dal generale Dietrich von Choltitz, capo del quartier generale tedesco a Parigi. Ma entra in scena Raoul Nordling, console svedese "nato e cresciuto a Parigi", che si intrufola nello studio di von Choltitz per cercare di dissuaderlo dal confermare quell'ordine fatale.
Tutti sappiamo com'è finita, perché Parigi continua a brillare con tutti i suoi gioielli. L'abilità della pièce teatrale Diplomatie di Cyril Gely, su cui è basato l'adattamento cinematografico ad opera dello stesso Gely e del regista Volker Schlondorff, è quella di ricreare la tensione di quelle ultime ore e tenerci in sospeso su quali saranno gli argomenti utili per convincere von Choltitz a cancellare la distruzione della capitale francese.

Schlondorff esamina un'altra pagina della Storia affrontando di petto il tema delle responsabilità - collettive e individuali, appunto - del nazismo, e lo fa tenendosi alla larga dagli stereotipi e dai luoghi comuni. Con una messinscena classica che concentra l'azione - puramente verbale - all'interno di una stanza, attraverso una grande attenzione ai dettagli - il bidet che transita durante la smobilitazione del quartier generale tedesco, la lampada di fortuna alla cui luce il generale deve leggere gli ordini di Himmler, il ticchettio dell'orologio che sottolinea l'urgenza della decisione - il regista racconta la storia di due uomini che hanno fatto la Storia rimanendo connessi alla loro umanità più profonda.

Recensione
Diplomacy racconta una storia sconosciuta ma importante: se quella notte del 24 agosto 1944 le cose non fossero andate così oggi Parigi non esisterebbe più, sarebbe stata inghiottita da una guerra in cui la vita umana non contava niente. In un periodo in cui entrambe le parti, l'asse e gli alleati, erano pronte a radere al suolo intere città, basta pensare a Dresda e a Varsavia, due uomini hanno fatto la scelta giusta salvando una delle città più belle d'Europa.
Il film ricostruiscemolte bene la Parigi dilaniata dopo quattri anni di guerra, la ferma decisione dei tedeschi di combattere strada per strada, palazzo per palazzo ma soprattutto l'odio della popolazione francese nei confronti di un nemico che li aveva oppressi per quattro lunghi anni. La fotografia è buona e il film è abbastanza scorrevole. Inoltre l'abilità degli attori ha permesso di rendere al meglio quei momenti drammatici, anche grazie al fatto che ci siano un francese e un tedesco ha certamente contribuito a ritrarre i due protagonisti, von Choltitz e il console svedese innamorato della Francia, come esseri umani a tutto tondo, ognuno dotato di ragioni condivisibili per agire in un modo piuttosto che in un altro, in particolare nel momento in cui Coltiz deve prendere la decisione piu difficile della sua vita.
"Lei cosa farebbe al mio posto?", chiede il generale al diplomatico, ma è come se lo chiedesse a noi, perché è impossibile chiamarsi fuori dal dilemma che riguarda il suo personaggio. In ballo ci sono i legami famigliari, il futuro di una città e di due nazioni, la paura, l'onore. E soprattutto "il limite oltre il quale l'obbedienza smette di essere un dovere", davanti ad un ordine criminale voluto da un regime vendicativo e brutale.
Non aggiungo altro perché non voglio anticiparvi troppo il film.

Siti dove trovarlo:
 https://youtu.be/MFlMgPiers8

Voto:
Del sito:
5/5

Del sondaggio:


giovedì 24 marzo 2016

Vajont la diga del disonore



Il film tratta gli avvenimenti che accompagnarono la costruzione della diga del Vajont ed il disastro che, nel 1963, costò la vita a circa duemila persone. La vicenda reale viene raccontata intrecciandola con la storia d'amore di Olmo Montaner, che nel film è uno dei pochi sopravvissuti alla tragedia, ma è in realtà un personaggio del tutto inventato (anche se forse, in parte, è ispirato al geometra Giancarlo Rittmeyer che la sera della tragedia era di sorveglianza sulla diga).

Trama
Era il 9 ottobre del 1963 quando 260 milioni di metri cubi di terra e rocce del monte Toc si staccarono e franarono nel lago artificiale della diga del Vajont. L'anomala, immensa onda relativa sommerse Longarone. Morirono oltre 2000 persone. Si parlò si fatalità, ma non era così. C'era stato chi aveva previsto la tragedia essendo la diga costruita su un terreno inadatto. La giornalista Tina Merlin cercò di portare alla luce la verità, indagando fra omertà e scarichi di responsabilità. Un funzionario si tolse la vita. Il processo, durato decenni, produsse solo condanne ridicole. Martinelli racconta tutto questo cercando di mediare lo spettacolo (troppi effetti speciali e addirittuta "esagerati") e l'inchiesta. La Morante è brava ma fin troppo aggressiva. La vera Merlin non era così. Ma, si sa, il cinema ha le sue licenze. Film, comunque, benemerito.

Recensione
Il film narra l'amore tra Olmo Montaner e Ancilla e sullo sfondo gli eventi dalla costruzione della diga (a cui Olmo lavora) fino al terribile disastro del 9 ottobre 1963. Il film ricostruisce in modo accurato gli intrighi dietro la costruzione della diga e i tentativi di varie persone di avvertire le persone del pericolo costituito da questa.
Le stesse azioni compiute da Olmo Montaner durante la notte del disastro sono ispirate alle azioni del geometra Giancarlo Rittmeyer che però morì nel corso dell'incidente.
Il film merita di essere visto dato che ricostruisce uno dei peggiori disastri nell'Italia del dopoguerra.

Siti dove trovarlo:
Su Dailymotion potete trovare il film completo in italiano:
http://www.dailymotion.com/video/x2cex17_vajont-la-diga-del-disonore-2001_shortfilms/

Voto
Secondo noi:
4/5
Secondo il sondaggio:

mercoledì 23 marzo 2016

Generation war



Generation War (in tedesco Unsere Mütter, unsere Väter, letteralmente Le nostre madri, i nostri padri) è una miniserie TV tedesca in tre parti prodotta dalla ZDF e andata in onda per la prima volta in Germania e Austria nel marzo2013, mentre in Italia è stata suddivisa in due parti, andate in onda per la prima volta venerdì 7 e sabato 8 febbraio 2014.

Trama
La vicenda prende il via nel 1941, durante laseconda guerra mondiale, quando cinque amici tedeschi, di età compresa tra i 18 e i 21 anni, si trovano ad una piccola festa per festeggiare la partenza dei fratelli Winter, rispettivamente ufficiale e soldato dell'esercito tedesco, e di Charlotte,crocerossina, per il nuovo fronte orientale, alla vigilia dell'inizio dell'operazione Barbarossa. I tre sono in compagnia di Viktor e Greta: il primo, figlio di un apprezzato sarto, non può partecipare alla guerra in quanto ebreo, mentre la seconda, che ha una relazione con lui a dispetto delle leggi di Norimberga, ha ambizioni di diventare cantante.
I cinque sono convinti che la guerra durerà pochissimo e che l'Armata Rossa sarà presto sconfitta, giurando di ritrovarsi il Natale dello stesso anno nello stesso posto, ma gli eventi che seguiranno frustreranno le loro speranze, sconvolgendo le loro vite.

Recensione
Il film ci da uno sguardo unico sulla Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di cinque amici, le cui vite verranno travolte inesorabilmente. La particolarità del film è che non si sofferma solo su un aspetto la situazione al fronte, l'olocausto, la resistenza, la vita dei civili in Germania ma li mostra tutti: il fronte orientale con gli occhi di Wilhelm Winter (Volker Bruch) , del fratello minore Friedhelm Winter (Tom Schilling) e dell'infermiera Charlotte (Miriam Stein), la vita civile con gli occhi di Greta Müller (Katharina Schüttler), la deportazione degli ebrei e la resistenza con gli occhi di Viktor Goldstein (Ludwig Trepte).Si tratta di tutti punti di vista che raramente si vedono normalmente nei film sulla Seconda Guerra Mondiale, ma che mostrano una realtà importante e molto diversa da quella scritta sui libri di storia. Lo consiglio vivamente a coloro a cui interessa avere uno sguardo diverso su una delle pagine più terribili della storia umana.
 
Siti dove trovarlo:
•La prima parte in italiano la trovate sul sito rai:

Voto:
Questo è il voto secondo me:
4/5
Questo è il voto ottenuto dal sondaggio:

martedì 9 febbraio 2016

Il massacro della foresta di Teutoburgo (situazione generale )

Augusto nelle sue res gesta si vantava di aver chiuso per ben tre volte l'accesso al tempio di Giano. Quando Roma era in guerra si aprivano le porte del tempio di Giano in modo tale che il dio potesse aiutare i romani a vincere.
Statua di Augusto 

Ma in realtà tranne nel caso della Partia,  egli grazie ai figli Tiberio e Druso e a vari generali, aveva iniziato una serie di campagne che gli permisero di ingrandire l'impero.

Ed è proprio in questo periodo che l'esercito romano subisce la sua più grande sconfitta ad opera dei barbari.
È il 9 d.C., Augusto ha promosso varie campagne tra cui alcune in Germania, durante una di queste muore il figlio Druso cadendo da cavallo (9 a.C.), tra queste spicca quella guidata da Quintilio Varo, che al comano di tre legioni si era addentrato all'interno della Germania.
Alla fine della campagna mentre le legioni iniziano il ritorno viene consegnato a Varo un messaggio in cui un contingente chiedeva di essere soccorso. Varo perciò decide di accorrere in soccorso del contingente. Crede si tratti di una delle frequenti rivolte dei germani ma ciò che non sa è che il responsabile di questi attacchi è Arminio comandante della cavalleria ausiliaria, uomo in cui Varo ripone molta fiducia.
Busto di Arminio

Così grazie a uno stratagemma, di cui non sappiamo molto, Arminio riesce a far cambiare percorso alle legioni romane e a farle dirigere verso la foresta di Teutoburgo.
È il luogo ideale per tendere un'imboscata, infatti è una fitta foresta con poco spazio di manovra per i legionari, che saranno intralciati dai numerosi civili che li seguono.
Legionari in marcia nella foresta di Teutoburgo